Nell’economia rurale dell’Italia inizio ’900 l’idea di sprecare il cibo non aveva alcuna cittadinanza, anche se al cibo era destinato circa il 50% del reddito: oggi il cibo ne impegna solo il 10%, ma abbiamo disimparato a relazionarci con il cibo.
Il consumismo, che condiziona i nostri comportamenti anche nei confronti del cibo, è un atteggiamento di tipo culturale in base al quale le persone si sentono più o meno realizzate esclusivamente sulla base delle loro possibilità di acquisto.
Se separiamo il cibo da necessità, salute, bisogni di ognuno; se ne separiamo la produzione dai tempi delle stagioni, della natura e dalle possibilità che ha la terra di rigenerare le sue risorse; se separiamo l’atto del mangiare da quello della conoscenza di quello che si mangia; se tutte le fasi della filiera produttiva perdono la connessione tra loro, allora lo spreco non solo è inevitabile, ma addirittura viene perseguito perché funzionale al criterio del massimo profitto. Un male minore a discapito del nostro pianeta, che ci conduce a un ulteriore spreco: uno spreco di salute.
Serve quindi un cambio di passo che riguardi normative, scelte energetiche, cultura di base, educazione all’ecologia; servono inoltre mutamenti profondi nelle scale di valore, nei comportamenti individuali e collettivi. Dobbiamo tornare a considerare l’agricoltura familiare, tradizionale e di piccola scala, con i suoi sistemi integrati e le sue capacità produttive commisurate ai bisogni delle comunità e alle risorse naturali, come un volano su cui basare la svolta verso una relazione con il cibo che soddisfi i nostri bisogni senza compromettere quelli degli altri viventi, attuali e futuri.
PAROLE CHIAVE cibo; spreco; consumismo; ambiente; salute.